Che il Dalai Lama numero 14, premio Nobel per la pace nel 1989, stesse per andare in pensione (leggi la notizia sul ritiro del Dalai Lama), lo si era capito già da qualche anno. Erano mesi che spiegava al mondo che avrebbe voluto rinunciare alle incombenze politiche per dedicarsi solo alla preghiera.
Il problema, però, per un leader religioso che incarna il Buddha, è che dovrebbe aspettare la morte per abdicare ai suoi poteri: altrimenti la successione, che avviene per reincarnazione, non si realizza.
Ora forse l'impasse è a una svolta. Il 10 marzo del 2011, in occasione delle tragica ricorrenza dell'anniversario dell'esilio (quando nel 1959 negli scontri con i cinesi morirono 65 mila tibetani), il Buddha vivente ha annunciato che non solo lascerà il suo ruolo politico ma affiderà al Parlamento il compito di modificare la Costituzione dell'autonomia tibetana, in modo che la prossima guida sia davvero un "eletto" e non solo un "reincarnato".
La mossa del leader religioso però è stata letta da Pechino come un imbroglio, un tentativo velato di dar vita a uno Stato del Tibet non solo autonomo ma del tutto indipendente. Come ha sottolineato Kate Saunders, un'attivista di Londra per l'autonomia del Tibet, «le dimissioni del Dalai Lama sono la dimostrazione della fiducia incondizionata al suo popolo», che ora dovrà dimostrare di trovare un leader altrettanto carismatico e capace, in Cina o tra gli esuli fuori dalla Cina.
venerdì 11 marzo 2011
La fine della reincarnazione Che cosa c'è dietro il ritiro del Dalai Lama.
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