domenica 27 febbraio 2011

Yara, l'ultimo testimone: «Litigavano, lei aveva una voce da bambina»

ROMA - C’è una cifra oscura nella scomparsa di Yara Gambirasio che neppure il ritrovamento del cadavere per ora ha rivelato. Una cifra di violenza pura, di feroce capacità organizzativa, un ghigno, uno sberleffo, un delirante spargimento di “segni” sul cammino, che chissà quanto impiegheremo a decrittarli tutti, e in maniera plausibile, quanto impiegheremo a sapere perché questa ragazzina di 13 anni appena, questa promessa della nostra ginnastica ritmica, questa faccia da Olimpiade prossima ventura, è stata prima portata via con la violenza e poi uccisa.

E quando è stato uccisa? E come è stata uccisa? E perché l’hanno uccisa? L’unico fatto certo è che è stata ritrovata a neanche 300 metri dagli uffici che in questi tre mesi hanno coordinato le ricerche, dalla “centrale operativa” di Madone che riunisce diversi comuni dell’Isola Bergamasca -si chiama Isola perché curiosamente comprende un’area circondata da corsi d’acqua- e che nell’idea leghista della sicurezza sul territorio dovrebbe servire a concentrare meglio le forze di diversi comuni e anche a risparmiare sui bilanci.

E’ un segno anche questo? Gli assassini di Yara si son potuti concedere l’ultima crudeltà? Ne sono convinti un po’ tutti laggiù, ne è convinta la Protezione civile locale che s’è sbattuta per novantadue giorni anche attorno a quei campi nel tentativo di ritrovare Yara, ne son convinti i runners che battono da veri atleti, ogni giorno, tutta la zona, ne sono convinti i cacciatori e gli stessi appassionati di aeromodellismo che proprio quei campi utilizzano come terreno delle loro esercitazioni.

Eppure il ritrovamento del corpo senza vita di Yara, a nove chilometri e quattrocento metri esatti dalla sua casa di Brembate di Sopra, da via Rampinelli 18, appare la conclusione più tragica ma anche la meno inattesa di questa storia tremenda. S’erano riempiti la bocca i giornali e le tv, e anche gli investigatori, della speranza di trovarla ancora viva, s’erano inseguite le medium e i cercatori di funghi di mezza Carnia pur di trovare la forza per cercarla ancora. Ma era una bugìa pietosamente raccontata a uso e consumo di quei due poveri genitori.

Si son perse troppe occasioni, e sarebbe stupido e perfino ingiusto addossarne ora tutta la responsabilità agli investigatori, ai migliori investigatori d’Italia calati a Bergamo a risolvere un rebus ancora impossibile da risolvere. Cinquecento testimonianze raccolte, quindicimila telefonate passate al setaccio, ma non è bastato a riprendere il filo di questa maledetta matassa.

Il corpo di Sarah Scazzi, tanto per fare un paragone che viene purtroppo naturale, fu trovato quarantadue giorni dopo la sua scomparsa, ma lo fece trovare qualcuno in carne e ossa, fu il contadino Michele Misseri a farlo ritrovare. Stasera, a Bergamo, bisogna prendere atto non solo del fatto che sono passati cinquanta giorni in più, ma che il povero corpo di Yara Gambirasio è stato soltanto e casualmente ritrovato in un campo vicino a un fiume. Non c’è altra traccia che porti al delitto, non c’è altra consolazione se non che sia lei, che sono suoi quei vestiti, che è suo quell’apparecchio per i denti, che è ancora suo quel ciondolo vezzoso.

Si ripartirà dal cantiere di Mapello allora, dallo sgabuzzino ancora grezzo del nuovo centro commerciale dove i famosi cani Bloodhound, i cani molecolari capaci di distinguere un odore su 650, segnalarono tracce di Yara, a due chilometri a mezzo scarsi dalla sua abitazione. E si ripartirà dalle testimonianze sulla Citroen rossa di Enrico Tironi, dalla signora Abeni che sostiene di aver visto una ragazza con due uomini e soprattutto da Mario Toracco, il vicino di casa, l’ex guardia giurata che vide un uomo e una donna litigare furiosamente mentre lui portava a spasso il cane e pensò fossero due fidanzati. Quando andarono a interrogarlo, però, gli venne un dubbio: «Forse lei aveva una voce da bambina ...».

Ventisei novembre, un’epoca fa. Yara che esce dal centro sportivo, il papà di un’amica che alle 18.38 la nota, lei che alle 18.44 scambia un messaggio con un’amica, la cella di Brembate che l’aggancia ancora in paese alle 18.55 e l’ultimo disperato sms della madre che alle 19.10 le chiede: «Dove sei?». Stop, fine delle comunicazioni.

Il 5 di dicembre viene arrembato su una nave in partenza per il Nord Africa - e non c’è ancora nessuna rivoluzione in arrivo - il povero incolpevole marocchino che lavorava nel cantiere. Due giorni dopo lo scarcerano con tante scuse e si ricomincia daccapo, al buio come al buio si è restati fino ad oggi. Il 28 di dicembre è il giorno della prima e unica conferenza stampa dei genitori di Yara, la famosa lettera scandita davanti ai microfoni in cui chiedono ai rapitori «di rispolverare nella loro coscienza un sentimento d’amore». Ben strano il linguaggio, ma finisce lì. L’8 gennaio la lettera anonima, il 15 la richiesta di silenzio stampa, il 20 di gennaio le inutili ricerche in provincia di Udine. Yara non c’è, non ci può essere. E così cala il sipario fino a ieri pomeriggio. Ore 15.30: purtroppo è lei.